FRA SOSPETTI, CRUDELTÀ E LUSSURIA, GLI ORRIDI SPETTRI DEL CASTELLO DI MONSELICE.

Tre orribili fantasmi infestano le mura dell’antico maniero monselicense.

 

di Roberto Fiordi

Ci troviamo ai piedi del Colle della Rocca, a Monselice, in provincia di Padova, dove erge un maestoso complesso architettonico che ha preso il nome di Castello Cini.

Si racconta che fra le mura di questo castello, quando soffia un forte vento, si odano ancora le grida del principe Jacopino da Carrara, tenuto rinchiuso a morire nelle celle dei sotterranei dell’antico maniero, da suo parente Francesco da Carrara.

Ma attorno a questo esteso raggruppamento di tipologie diverse di edifici, gira anche un’altra leggenda, forse vera o forse no, quella di Avalda, il fantasma di una donna – tanto bella quanto crudele – che apparirebbe nella sua cerea carnagione, indossando un abito bianco, grondante di sangue.

Si tratterebbe di una nobildonna,  che amava circondarsi di giovanotti belli per soddisfare a pieno il maniacale desiderio lussurioso che era insito in lei. Ma se tale è una certezza, ci sono ipotesi che direbbero che la donna, dall’aspetto attraente: alta, snella, carnagione chiara, capelli e occhi neri e dallo sguardo misterioso, uccidesse i suoi giovani amanti subito dopo l’accoppiamento.

Si dice che la donna fosse abile nella pratica delle arti di stregoneria e di negromanzia, e che  avrebbe tentato di conquistare l’eterna giovinezza, o la lunga vita, bevendo – o facendo il bagno – nel sangue delle sue malcapitate giovani vittime.

Come arrivasse ad uccidere i suoi amanti ci sono due versioni, una racconta che al giovane amante di turno, subito dopo l’amplesso, attraverso un sistema di trabocchetti, lo facesse precipitare in un pozzo, nel fondo del quale erano state depositate lance con le punte rivolte verso l’alto.

Un’altra versione racconta che fosse solita far salire nelle sue stanze i giovanotti e dopo averli sedotti li addormentasse con un infuso di belladonna, dopodiché li uccidesse recidendo loro con un pugnale la parte giugulare. Raccogliesse quindi il loro sangue in una coppa d’oro e lo besse.

Avalda (o Ivalda) era moglie di Azzo VII, un condottiero a capo di un esercito crociato messo in piedi da papa Alessandro IV per sconfiggere Ezzelino da Romano, il controllore di un vasto territorio che si estendeva dalle Alpi di Trento sino al fiume Oglio, e il papa aveva visto in Ezzelino una minaccia al suo tentativo di rilanciare una campagna anti-imperiale.

Se anche  il condottiero Azzo VII era mosso da interessi economici contro Ezzelino, ancora di più lo era per rivendicare un torto al suo onore ricevuto dal tiranno.

In primis, infatti, i due, Ezzelino e Azzo, erano amici e spesse volte quest’ultimo, signore d’Este,  si recava alle sontuose feste che il tirranno organizzava nel suo castello di Monselice. E pare che sia stato proprio durante una di queste feste che Ezzelino si sia lasciato sedurre dallo sguardo vampiro della 20enne, che emanava quell’attraente vena di mistero, e che sia riuscito a farla sua e darle in dono quel castello, dopo averlo fatto riedificare.

Non è molto chiaro quale sia stata la sorte di Avalda, c’è chi narra che Ezzelino si fosse poi stancato delle sue smanie e che abbia assunto un sicario per farla fuori, oppure – la seconda versione – è quella che sarebbe stato Azzo a ucciderla di mano propria perché non sopportava che lo avesse lasciato.

La cosa che coincide fra le due versioni è il luogo del delitto della donna, entrambe raccontano che è accaduto nel salone d’onore.

Da allora lo spirito della donna continua a girare  lungo le sale del castello, lamentandosi in cerca di una pace che non potrà mai trovare; e – a quanto sembra – non ci sarà mai nessuno  che possa essere in grado di sopportare il suo sguardo innamorato e ferito se dovesse incrociarlo.

Lo spettro di Jacopino da Carrara, invece, procede lungo i corridoi del castello mantenendo un passo lento e incerto. Si regge su un bastone. Appare magro e deperito, con lunghi capelli spettinati dal colore grigio.

Siamo nella Padova di fine 1350, quando Jacopo e Francesco di Carrara, per acclamazione del popolo, furono nominati governatori. Nei primi periodi tutto filava liscio, ma poco alla volta fra loro il rapporto andava incrinandosi. Iniziavano a esserci contrasti dovuti soprattutto alla difficile situazione politica italiana di quel tempo.

Francesco non potè fare a meno di sospettare che Jacopino stesse siglando accordi segreti con la Repubblica di Venezia per spodestarlo dal governo della città e, nel 1355, ordinò così che fosse imprigionato in un sotterraneo del castello di Monselice.

La moglie di Jacopino, Giudita, tentò in tutte le maniere possibili d’incontrare il suo amato,  ma la severità e il rigore del capitano del castello di Monselice glielo impedirono e così la donna, disperata, si prodigò nel corrompere alcune guardie e riuscì a vederlo per pochi minuti.

La corruzione della povera Giudita fu scoperta e questo le costò di venire rinchiusa pure lei in una cella del castello. Francesco da Carrara sospettò inoltre che la donna potesse essere un agente segreto veneziano, e così dette l’ordine che Jacopino fosse lasciato morire di sete e di fame nella sua buia cella. L’ordine fu immediatamente eseguito; e perciò le disperate urla strazianti di entrambi i prigionieri finirono per risuonare lungo le vie adiacenti al castello per diversi giorni; e si prolungarono anche dopo che l’angelo della morte aveva preso con sé le anime dei due amanti.

Lo storico Carturan ci informa che ancora nello scorso secolo, quando il vento infrangeva nei resti del castello in rovina, portava con sé la grida di Jacopino.