PIETRO DE NEGRI DETTO “ER CANARO”. IL DELITTO PIÙ EFFERATO DI ROMA. TORTURA, SANGUE E CRUDELTÀ.

È la storia di Pietro De Negri, uno dei tanti dell’allora 30enni che si aggirava per le vie della Capitale. Questi era conosciuto col soprannome di “Er Canaro della Magliana” perché di lavoro faceva il toilettatore di cani. Pietro De Negri aveva un brutto vizio: si drogava. A Pietro De Negri, detto Er Canaro, piaceva assumere sostanze stupefacenti con il naso; e quando gli mancavano i soldi andava a rubare.

Per questa ragione, però, fu beccato e messo dentro. Er Canaro dovette scontare una condanna di 7 mesi di carcere con l’accusa di avere svaligiato un negozio vicino al suo. Ma ad aver commesso il furto erano stati in 2, lui e un suo complice. Anzi, era stato più il suo complice.

Durante i 7 mesi di detenzione, Pietro De Negri, non si era mai fatto uscire dalla bocca il nome dell’altra persona che con lui aveva commesso il crimine al negozio. Però, quando poi, uscito di carcere, andò a reclamare dal complice la parte della refurtiva a lui spettante, anziché trovare riconoscenza da parte di questi per non averlo coinvolto con la giustizia trovò un’altra cosa.

L’altro si chiamava Giancarlo Ricci ed era appunto un ex pugile. I rapporti fra i 2 “amici” erano sempre stati non molto limpidi. Si trattava di una strana amicizia. Giancarlo Ricci spesse volte si era comportato da aguzzino nei confronti di Pietro, nonostante che Pietro avesse avuto 32 anni e Giancarlo 27. Malgrado questo, però, Pietro continuava a frequentarlo. Giancarlo Ricci, oltre ad essere stato un pugile era anche uno spacciatore di droga.

È il 20 febbraio del 1988 e in una discarica di via Portuense a Roma viene rinvenuto il corpo orrendamente mutilato e carbonizzato di una persona. Chi?

Pietro De Negri non aveva né la forza e né la capacità per potersi difendere dalle prepotenze e dall’aggressività dell’ex pugile. Pietro De Negri era un agnellino nei confronti di Ricci. E così, dopo essere uscito di carcere, Pietro si recò da Giancarlo per recriminare la sua parte di bottino e Giancarlo Ricci lo riempì ancora una volta di botte.

Ma per Pietro quella storia doveva finire.

Era il 18 febbraio del 1988 e Pietro propose a Giancarlo un affare sicuro. Un ottimo bottino. Gli disse che al suo negozio aveva preso appuntamento con uno spacciatore, e l’affare sarebbe stato quello di rapinare questo spacciatore. Giancarlo non avrebbe mai rifiutato una proposta del genere: l’occasione di mettere le mani così facilmente e a costo zero sulla droga quando mai gli sarebbe ricapitata? Quindi accettò.

All’una di quel giorno, con la sua Alfa, raggiunse il negozio. Pietro gli disse di avere pianificato tutto. La strategia sarebbe dovuta essere quella che lui, l’ex pugile, si nascondesse in una gabbia per cani e uscire fuori al momento opportuno. Giancarlo obbedì. Si accucciò nella gabbia per cani sotto il bancone di metallo del negozio. Ma una volta che fu dentro il lucchetto della gabbia si chiuse. Ricci era in trappola. L’aguzzino – adesso – si trovava ad essere sotto il potere di chi sino a quel momento era stato il suo agnello.

Il destino dell’ex pugile dilettante dipendeva da quell’uomo chiamato Er Canaro; un uomo dall’aspetto minutino, carattere mite e padre di una figlia. Un uomo semplice e all’apparenza inoffensivo, che si guadagnava da vivere con la sua toilette per cani. Ma in questa occasione, Er Canaro, da preda era divenuto predatore.

Ricci iniziò ad urlare e a chiedere aiuto, ma la sua voce veniva soffocato dallo stereo di Er Canaro tenuto a tutto volume. L’ex pugile era spaventato, cercò con tutta la forza di aprire le sbarre della gabbia, ma non ci riuscì. Le allargò e ci infilò la testa, mentre Pietro gli spruzzava addosso della benzina con un nebulizzatore per stordirlo. 

Alle ore 15.00 di quel giorno De Negri, dopo che aveva assunto droga per tutta la notte, intraprese una spietata sequenza di sevizie sul corpo del suo prigioniero che durò per 7 ore. Iniziò dando fuoco al viso dell’ex pugile dopo averlo cosparso di benzina. Quindi lo stordì con una bastonata. Ed a quel punto, secondo il racconto dell’assassino stesso, tirò fuori la sua vittima dalla gabbia e la legò a un tavolo.

 L’esile aspetto fisico di Pietro De Negri, almeno in quella circostanza, si trovò ad essere inversamente proporzionale alla crudeltà che si era impossessata di lui. Er Canaro era stanco delle vessazioni che aveva subito per molto tempo dell’ex pugile, così arrogante, così prepotente e così pieno di sé. Addirittura la rapina vicino al negozio era stato Ricci ad avergli imposto di farla a suon di botte.

Il piano escogitato per la rapina al negozio consisteva, Pietro De Negri quel giorno se ne sarebbe andato al mare con la moglie e la figlia per crearsi un alibi, mentre Giancarlo Ricci avrebbe preso le chiavi del negozio di De Negri e avrebbe aperto un foro alla parete che separava i due esercizi per passare dall’altra parte. 

De Negri, come ovvio, fu il primo ad essere ascoltato dagli investigatori e, messo alle strette, cedette. Restò in carcere 7 mesi senza mai però svelare il nome del complice e quando andò da lui a chiedere la sua parte subì ancora violenze.

Dunque la vendetta di chi sino ad allora aveva sempre subìto soprusi si trasformò in uno dei più brutali e sanguinosi omicidi della storia di Roma. Forse il più delirante assassinio riportato dalle cronache.   

Dopo aver legato Ricci al tavolo, De Neri gli amputò atrocemente i pollici e gli indici d’entrambe le mani con le tronchesi. L’ex pugile, carico di rabbuia e di dolore, lo insultò e lo minacciò e così De Negri gli tagliò pure la lingua posandola sul bancone vicino alla dita. Cieco d’odio, Er Canaro, gli trinciò le labbra, la punta del naso e le orecchie. Lo evirò e gli ficcò quei genitali nella bocca.

Preso dalla follia, De Negri, ogni volta cicatrizzava le ferite della vittima attraverso la cauterizzazione, ovvero bruciandole con l’impiego della benzina e un ferro rovente, in modo tale che Ricci non morisse dissanguato. Intanto l’ex pugile stava morendo soffocato.

Crudele è stata la tortura d’Er Canaro, come crudeli sono state le dichiarazioni che ha rilasciato davanti al giudice quando è stato poi interrogato: «Gli ho anche tagliato le orecchie come facevo ai doberman. Volevo far assomigliare la sua faccia a quella di un cane. Sembrava uno zombie, non moriva mai. Infine, esasperato, gli ho aperto la bocca con una chiave inglese e l’ho soffocato mettendogli dentro tutto quello che gli avevo amputato».

Anche dopo la morte di Ricci, stando sempre al racconto dell’omicida reo confesso, pare che, sempre lui stesso, si sia accanito su quel cadavere sfracellandogli i denti a martellate, dopodiché con le dita gli abbia prima tolto gli occhi e poi reciso l’ano. Con l’odio che gli schizzava fuori dagli occhi, gli aprì pure la scatola cranica e gli lavò il cervello con uno shampoo per cani.

Avrebbe poi aggiunto, di fronte al giudice, di averlo portato fra i rifiuti, «Dove meritava di stare», avrebbe evidenziato, «e lì gli ho dato fuoco». Vendetta fatta!

A fare la scoperta del corpo fumante della vittima fu un pastore che avvertì la polizia. Gli investigatori portarono in questura 85 persone e una di queste fece il nome dell’assassino.

Fu così processato e condannato a 24 anni. Tornò in libertà nell’ottobre del 2005. Moglie e figlia lo hanno aspettato. Ai suoi occhi Pietro De Negri non si riteneva un assassino ma un giustiziere. Non aveva fatto altro che rivendicare tutte le sofferenze che la sua vittima gli aveva fatto passare per molti anni.