Violenza di gruppo: alla ricerca degli alibi. Ne parla lo psicologo e docente universitario Mariano Indelicato

La terribile violenza sessuale commessa a Palermo da sette ragazzi nei confronti di una 19enne non fa altro che confermare la terribile scia di violenza che ha colpito l’infanzia e l’adolescenza. Si stanno susseguendo, come logico che sia, una miriade di commenti come se i presunti colpevoli venissero da altri sistemi sociali, da paesi africani o, addirittura, da altri pianeti. Invece, sono ragazzi che possiamo trovare al bar, nei luoghi della movida, a scuola, all’università, nei luoghi di lavoro ogni giorno. Siamo tutti impegnati leggendo e analizzando ogni singola parola o virgola a capire se dietro questi abnormi comportamenti si nascondano patologie di carattere psichiatrico o disturbi di carattere psicologico. La bramosia, la ferocia che, come fatto notare dal Prof. Francesco Pira attraverso un video e tante interviste su quotidiani locali e nazionali, ha sconvolto anche i normali canoni e regole di comunicazione e, sicuramente, non è disinteressata. Se trovassimo una eventuale patologia o, peggio ancora, comportamenti della ragazza che possano aver indotto il branco a commettere la violenza saremmo tutti salvi e potremmo tutti imbellettarci all’interno del nostro perbenismo. E invece no. Siamo tutti, ognuno per la sua parte, colpevoli. In questi anni siamo rimasti sordi ai tanti appelli arrivati dal mondo scientifico sulla fragilità delle nuove generazioni e sull’infanzia violenta. Non abbiamo saputo leggere i prodomi di una società senza padre, senza l’autorità necessaria, senza modelli di identificazione che potessero sottoporre il desiderio alla legge.  Il desiderio, senza meccanismi compensatori che lo sottopongono alla realtà, tende alla sua soddisfazione senza nessun principio di carattere etico.  Non dimentichiamo che quest’anno è dovuto addirittura intervenire il Ministro della Pubblica Istruzione per abbassare il voto in condotta a due ragazzi che avevano sparato dei pallini ad un’insegnante. Ricordiamoci dei padri, come tanti altri genitori meno noti, che detengono alte cariche istituzionali o un alto potere mediatico che di fronte alle accuse di stupro rivolte ai loro figli li hanno difesi dichiarando che le ragazze erano consenzienti. Risulta complicato capire come una ragazza consenziente si alzi da un letto, in cui avrebbe dovuto avere una delle esperienze più felici della sua vita, per andare a denunciare. Eppure nessuno si chiede se i propri figli hanno potuto scambiare i segnali per altro. Nessun genitore, malgrado moltissime ricerche lo abbiano messo in luce come quelle svolte dal Prof. Francesco Pira, si chiede da dove i propri figli abbiano appreso il sesso, tranne poi ritrovarsi con frasi come quelle riportate dalle cronache addebitate ad uno dei stupratori di Palermo “eravamo come in una scena di un film pornografico”. Ecco dove i figli apprendono il sesso, su internet e le piattaforme social che promuovono un’offerta abbastanza ampia e, soprattutto, accessibile a tutti. Inoltre, su queste piattaforme si formano una coscienza pornografica che è svincolata dalle narrative di lunga durata ma che dipende esclusivamente dalla visibilità e dal godimento del corpo. Chi controlla? Nessuno. Da almeno 30 anni si parla di educazione sessuale nelle scuole senza, anche in questo caso, fare assolutamente nulla. L’argomento è diventato talmente vecchio e stantio che non ne parla più nessuno. Tutto ciò accompagnato da un modello educativo e sociale imposto da un ipermodernismo teso ad abbattere tutti i simboli, i rituali, i miti provenienti dal passato. Questo ha comportato la rottura del patto generazionale che è contraddistinto dal vivere in un eterno presente senza passato e senza, soprattutto, nessuna proiezione futura. Ecco l’emergere dell’immediatezza, del “tutto e subito” tipico del funzionamento che Freud ha identificato come principio del piacere. Nel “tutto e subito” non è compresa l’alterità ovvero la presenza dell’altro che diventa semplicemente un contenitore di ricompense senza essere riconosciuto nella sua vera identità. Il corpo della ragazza era semplicemente da consumare al di là ed indipendentemente a chi appartenesse. Anzi, questa appartenenza non è stata riconosciuta tant’è che gli inviti della vittima a fermarsi sono caduti nel vuoto cosi come le sue richieste di aiuto. “Falla Bere che adesso ci pensiamo noi a farle passare le voglie” senza neanche chiedersi se in effetti le avesse o meno. Il corpo come qualsiasi cibo da cucinare e consumare e/o bicchiere di vino da bere. Sembrerebbe a prima vista che questi ragazzi fossero guidati da una logica assurda, incomprensibile, pazzesca o, addirittura, animalesca o da una patologia improvvisa. Eppure se per un attimo volessimo soffermarci su i nostri comportamenti quotidiani dovremmo chiederci come utilizziamo il nostro corpo? A cosa servono tutte le foto che postiamo continuamente sui social media alla ricerca dei like? Non mercifichiamo, attraverso processi che sempre il Prof. Francesco Pira ha denominato di vetrinizzazione, il nostro corpo senza dargli alcuna identità? O, peggio ancora, non costruiamo ogni giorno una identità diversa mostrando tante maschere di noi stessi?  Non siamo forse attratti da corpi senza spirito e senza anima? Se veramente vogliamo aiutare i nostri figli, le nuove generazioni, dovremmo trovare il modo di rispondere a queste numerose domande piuttosto che andare alla ricerca di alibi che non aiutano nessuno. Noi abbiamo svuotato il corpo, a mo’ di un automa, per metterlo in mostra senza dargli nessuna e/o una molteplicità di identità. Abbiamo promosso all’interno della cultura social il bisogno di una forte affermazione di sé accompagnate da forme di narcisismo che mettono al centro dell’interesse il proprio Io e trascurano l’Altro. Nella società social il tratto distintivo è diventata l’estetica, la ricerca della bellezza a tutti i costi. Baumann ha descritto la relazione tra l’Io e l’Altro come una fornitura di beni e servizi del secondo nei confronti del primo. L’Io non ricerca l’Altro nella sua essenza ed autenticità ma, semplicemente, per soddisfare le sue esigenze. Un altro autore Muscelli fa rilevare che non si è alla ricerca di una conoscenza approfondita dell’Altro, ma l’interesse è esclusivamente estetico in cui l’altro è “da assaggiare e sentire” come se fosse un gelato e/o un dolce. Nella relazione di immediatezza l’altro non è il partner con cui dialogare, a cui rendere conto, di cui sentirsi responsabile, verso cui vergognarsi.  I ragazzi del branco non hanno provato nessuna vergogna, anzi si sono vantati tra di loro ed anche con altri delle loro gesta.

È ormai assodato che normalità e anormalità si situano lungo un continuum e, quindi, se vogliamo veramente cambiare dobbiamo prendere coscienza dei nostri comportamenti quotidiani senza invocare nessun alibi ma, piuttosto, trovare il modo di costruire un nuovo umanesimo che attenzioni maggiormente i legami umani. Aristotele sosteneva che l’anima è il contenitore del corpo: un corpo senza anima è un qualsiasi oggetto da consumare e buttare cosi come hanno fatto i ragazzi di Palermo. Di questo tipo di cultura siamo tutti colpevoli nessuno escluso. Il corpo appartiene ad un altro diverso da me che deve essere riconosciuto nella sua alterità. L’uomo per la sua stessa esistenza ha bisogno di un altro in cui riconoscersi. Senza l’altro ognuno finisce di essere per andare verso il non essere e la non esistenza. La nostra società ha bisogno fortemente di recuperare questo tipo di cultura e di ricercare le proprie origini all’interno della sua storia generazionale. Dobbiamo in sostanza recuperare il senso della comunità che si fonda su un principio descritto tanti anni fa da Freud attraverso il concetto di pulsione inibita alla meta ovvero che il soddisfacimento del desiderio si ha solo all’interno della Legge. Senza Legge non vi è autorità e senza autorità non si soddisfa il desiderio ma si sfocia verso forme di devianza psicotica come in una sorta di schizofrenia collettiva.

Mariano Indelicato