FALCONE BORSELLINO, gli eroi di “Casa Nostra”

 

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di Roberto Fiordi

 

Io sono vissuto in una società in cui quando avevo 15 anni un mio compagno di scuola si vantava di essere figlio di un capo mafia del suo paese, e io lo invidiavo. Oggi, al di là di quello che sarà lo sbocco giudiziario delle indagini, al di là delle eventuali condanne, le inchieste hanno avuto di riflesso una valenza culturale proprio perché sono state diffuse, rese pubbliche; perché la gente se ne è interessata. Oggi, probabilmente, non ci sono più a Palermo giovani come me, che a 15 anni invidiano il compagno di classe di essere figlio di un mafioso“.

Sono dichiarazioni rilasciate dal giudice Paolo Borsellino, che lasciano intravedere che ci troviamo oramai di fronte a una svolta, che i tempi stanno cambiando, che la mafia può essere finalmente guardata in faccia e affrontata con maggiore fiducia e coraggio, in quanto la popolazione è dalla parte della giustizia, e l’omertà che ha regnato per secoli interi nella  maggiore isola del Mediterraneo, sembra intenzionata a cambiare indirizzo. Il popolo ha sete di onestà, sente il bisogno di un radicale cambiamento, di un rinnovamento istituzionale e sociale. Anche la mentalità delle nuove generazioni, stando alle dichiarazioni del giudice,  sembra abbiano preso un’altra piega in quanto, se prima era un vanto essere figlio di un capo mafia al punto di andare a sbandierarlo in giro, nei tempi più recenti le cose sono un po’ cambiate. Un ruolo fondamentale, in questo ambito, lo ha avuto l’informazione, che è stata capace di far arrivare al cuore delle persone l’impegno e il sacrificio sul lavoro da parte dei giudici, delle forze dell’ordine, e di tutti coloro che si sono adoperati per combattere questa potentissima organizzazione criminale, arrivando a scuotere le coscienze dei ragazzi, di coloro cioè che saranno il domani.  Li ha aiutati a prendere atto di che cosa è la mafia. E’ vero che ancora oggi il braccio della mafia è parte integrante del sistema sociale, ma in questo modo almeno un passo in avanti è stato fatto, anche se c’è moltissima strada ancora da fare…

Ma che cos’è la Mafia?

La domanda non è semplice, e la risposta è abbastanza restrittiva: la mafia è un’associazione criminale organizzata, che vive attraverso l’estorsione, il traffico di armi, di uomini e di droga, il riciclaggio di denaro, la prostituzione, il racket e altro ancora, e che impone il proprio potere attraverso la violenza, il terrore, gli omicidi. La mafia è un sistema di potere che ha radici abbastanza remote e che si è intessuto nel sistema sociale al punto tale di essere entrata a farne parte.

Ma nel 1987, la solida organizzazione siciliana, nota col nome di Cosa Nostra, subì un durissimo colpo da quello che in termini giornalistici fu battezzato con l’appellativo di “Maxiprocesso di Palermo“, che vide ben 475 presunti criminali sul banco degli imputati, poi scesi a 460 durante il processo, che ha avuto inizio il 10 febbraio 1986 e si è concluso il 16 dicembre 1987. Fu tenuto nell’aula bunker del Palazzo di Giustizia del capoluogo siciliano dai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Gli imputati furono tutti condannati. Il presupposto che spinse i due giudici, Falcone e Borsellino, a intentare quel maxiprocesso, fu quello che i processi di mafia dovevano essere visti tutti contestualmente, in modo da trovare le connessioni fra l’uno e l’altro. Il lavoro fu durissimo e portato avanti da una laboriosa squadra di magistrati, individuata col nome di pool antimafia.

Agli inizi degli anni Ottanta, per contrastare la sanguinosissima guerra di mafia, la seconda interna a Cosa Nostra, dove fazioni rivali si contendevano il territorio, il consigliere istruttore, Rocco Chinnici, aveva pensato di fondare all’interno del tribunale di Palermo, una squadra di giudici istruttori che si occupasse esclusivamente del caso mafia. Lo scopo del pool era quello per i giudici di lavorare fianco a fianco l’uno all’altro, condividendo fra di loro tutte le informazioni in merito all’inchiesta, nel massimo riserbo con l’esterno. L’idea del pool nacque a seguito dei molteplici omicidi di magistrati chiamati ad occuparsi di mafia, avendo avuto ciascuno la gestione individuale della specifica indagine e quindi ritrovandosi sottoposto ad attentati.

A seguito poi dell’omicidio dello stesso Chinnici, avvenuto nel 1983 per mano di Cosa Nostra, il giudice chiamato a sostituirlo, Antonio Caponnetto, decise di portare avanti il progetto iniziato dal suo predecessore e creare così il pool antimafia. Fra i giudici che meglio conosceva e di cui maggiormente si poteva fidare, Caponnetto scelse anche Giovanni Falcone e Paolo Borsellino; due sensate e decise persone che sapevano bene l’elevato rischio a cui erano esposti. Consapevoli già dal principio di quale sarebbe dovuta essere la loro sorte, si buttarono fitti e a testa bassa sul lavoro, portando avanti l’impegno assunto e ottenendo, assieme ai componenti del pool, buoni risultati.

Si racconta che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da adolescenti siano cresciuti nei quartieri popolari di Palermo, frequentando anche, con buone probabilità, alcuni ragazzi che da adulti sarebbero divenuti uomini di Cosa Nostra; e questo ci può spiegare il motivo per il quale essi sapessero dialogare con i pentiti di mafia, perché sapessero comprenderli e cogliere il senso dell’onore siciliano, come il linguaggio mafioso. Probabilmente è dovuto a questo motivo che quando Tommaso Buscetta fu estradato in Italia nel 1984 per collaborare con la giustizia, dopo l’arresto avvenuto l’anno precedente da parte della polizia brasiliana, chiese di poter parlare con Giovanni Falcone. Per il giudice e per le indagini le confessioni del super pentito aprirono scenari nuovi, per la prima volta fu tolto il coperchio alla cupola di Cosa Nostra e questo dette adito a una visione più ampia e più globale di come era strutturata nel suo interno la mafia siciliana, cosa che mai nessun giudice prima di allora era stato capace solo d’immaginare.  Fu un duro colpo per Cosa Nostra, le sue rivelazioni portarono a numerosi arresti e fu raccolto un nutrito numero di prove per istituire il maxiprocesso. Tuttavia, Buscetta rifiutò di parlare dei legami politici di Cosa Nostra, ritenendo che lo Stato non fosse ancora pronto.

Il boss dei due mondi, com’era stato definito Buscetta dopo che si era spostato in Brasile per gestire il traffico di droga fra l’Italia e l’America latina, e anche per sfuggire alla ferocia dei corleonesi durante la seconda guerra di mafia,  non si era macchiato di questo indegno disonore, nel linguaggio mafioso di uomo infame, che suona peggio di traditore, semplicemente per avere privilegi carcerari, bensì aveva preso coscienza di collaborare con la giustizia a seguito dello sterminio della sua famiglia mosso dalla mafia.

Durante la fase ancora in corso del maxiprocesso, il 19 dicembre del 1986 Borsellino fu nominato Procuratore delle Repubblica di Marsala  e quando a settembre dell’anno dopo Caponnetto lasciò la Procura per motivi di salute e per sopraggiunti limiti di età e a sostituirlo chiunque pensava (Paolo Borsellino in primis) che sarebbe stato Falcone, ecco il colpo di scena. In seduta notturna del Consiglio Superiore della Magistratura, a gennaio del 1988 fu designato Antonio Meli, che non intese continuare sulle orme di Caponnetto e smontando il suo metodo di lavoro non fece che far retrocederlo d’un decennio.

Paolo Borsellino si oppose subito alla mancata nomina a capo del pool del collega e amico Giovanni Falcone, e le aperte dichiarazioni rilasciate in merito alla Procura di Palermo gli fecero rischiare un provvedimento disciplinare che solo grazie all’intervento dell’allora Capo dello Strato, Francesco Cossiga, non fu attuato e fu deciso d’indagare su ciò che accadeva all’interno del Palazzo di Giustizia.

Dal memento in cui fu riconosciuta la carica a Meli di consigliere istruttore della Procura di Palermo, Falcone, Borsellino e tutto il pool si trovarono costretti a dover affrontare scogli sempre più ostili al loro lavoro. Tale ostilità giungeva dall’esterno ma anche dall’interno, al punto che la Cassazione stessa sconfessò l’omogeneità delle indagini in fatto di mafia.

Sempre nel 1988 Meli annunciò pubblicamente lo scioglimento del pool, e nonostante l’annientamento dell’unità investigativa che aveva portato a concreti risultati, i due giudici continuarono a lavorare nella lotta contro la mafia; ma intanto intorno alla figura di Falcone si era inasprita una stagione di astio, e mentre dall’estero e parte dall’Italia arrivavano complimenti per il suo operato, un’altra parte era spietatamente critica. Gli lanciavano contro accuse di protagonismo. Lo stesso sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, esplose su Rai 3 infangando l’operato del giudice, accusandolo di aver tenuto sigillati nel cassetto serie di documenti riguardanti eccellenti omicidi e delitti mafiosi. Di avere occultato atti riguardanti rapporti Stato-mafia. Le contestazioni sul lavoro di Falcone giunsero anche da componenti della magistratura palermitana in pieno disaccordo col maxiprocesso. Persino due giornalisti furono portavoce del popolo dei dissidenti, Indro Mondanelli nel suo quotidiano Il Giornale e Antonio Ardizzone ne’ Il Giornale della Sicilia, pubblicando articoli nettamente critici all’inchiesta. Gli scontri sorti fra il giudice Giovanni Falcone, il Procuratore capo Giammanco e alcuni sostituti, portarono lo stesso giudice a chiedere e ottenere di lasciare Palermo e assumere l’incarico al ministero di Grazia e Giustizia di Roma.

E come ogni fine settimana, che Falcone assieme alla moglie faceva ritorno alla sua Palermo, anche in quel sabato, 23 maggio 1992, non variò le abitudini, ma fu l’ultimo in quanto dovette andare incontro al proprio destino. 500 chili di tritolo piazzati sotto l’autostrada che collega Palermo e Trapani, provocarono un boato spaventoso al suo passaggio. Morirono lui, la moglie e tre agenti di scorta.

Paolo Borsellino, appresa la notizia, fu il primo ad accorrere all’ospedale dove Falcone era giunto ancora in vita; ma quando arrivò la sorella di Falcone, Maria, sarà lo stesso giudice ad annunciarle il suo decesso, rivelando che gli è morto fra le braccia.

Mentre si stava trovando in quell’ospedale, Paolo Borsellino intuì che si sarebbe dovuto sbrigare a condurre le indagini, perché il prossimo destinatario di Cosa Nostra sarebbe dovuto essere lui.

La sua dichiarazione fu profetica, perché a distanza di poco meno di due mesi dall’attentato di Falcone, il 19 luglio 1992, una Fiat 126 imbottita di tritolo esplose mentre lui, circondato da agenti della scorta, stava citofonando a sua madre dopo che con la moglie aveva trascorso una felice giornata al mare. Persero la vita il giudice e tutti gli agenti della scorta.

La risposta all’ennesima strage fu una massiccia rivolta da parte dei cittadini contro la mafia, oramai stufi di tutto questo sangue. Una corposa manifestazione di persone era scesa in piazza a gridare giustizia. Veniva chiesto allo Stato d’intervenire e portare ordine in quella bellissima terra. E la risposta dello Stato non si fece attendere, dal 25 luglio 1992 all’8 luglio 1998 fu inviato in Sicilia un esercito di 20.000 militari a presiedere gli obbiettivi sensibili come scuole, aeroporti, stazioni, tribunali, eccetera; e in più vennero divulgate, nelle scuole e non solo,  lezione sulla legalità e di educazione civica, dove a presiederle c’erano veri e propri magistrati.


  1. Immagine fonte Google